Il giorno che sono scappato da Alcatraz

Un challenge suggestivo, e la determinazione di un giovane con sclerosi multipla che molla gli ormeggi e si butta in mare.

Vi chiederete: “di cosa sta parlando?” Me lo hanno domandato i miei il giorno che ho rivelato l’intenzione di partecipare a questo challenge.

Da due anni l’idea mi girava in testa giorno e notte. Un mattino ho avuto l’impulso di dire: “Basta, devo farlo, per me e per tutti quelli che condividono la mia stessa sorte”. Da quel giorno mi sono come svegliato da un lungo sonno. Avevo di nuovo una sfida, mi sentivo vivo, felice, con una energia e voglia di vivere che mi ha fatto ritornare a sentirmi come un bambino.

Mi sono allenato per 5 mesi, non è stato difficile cambiare il mio allenamento regolare con uno specifico per questa gara. Sono un nuotatore fin da quando ero bambino, ho affrontato parecchie gare di nuoto in piscina ed acqua libera. La preparazione per questa sfida mi ha fatto riprendere quello che mi è stato tolto dopo la diagnosi.

Questa gara aveva qualcosa di particolare: mio padre era parte del team che mi accompagnava in California, prima volta che facevo una gara di nuoto con lui. Dopo il lungo viaggio in aereo siamo arrivati a San Francisco, nella terra che ha partorito la rivoluzione sociale e tecnologica dell’era moderna. La città è un mix tra modernità e un romantico stile vittoriano, con un fascino tutto suo. In macchina stringevo il mio zaino con ansia: potevo già vedere in lontananza la baia, e laggiù un luogo del quale molto si è scritto in letteratura e nel cinema: l‘infame carcere di massima sicurezza di Alcatraz.

Prima della diagnosi ero un ragazzo molto attivo sportivamente, tra nuoto, apnea e pesca-sub ogni fine di settimana, e ancora prima il Karting, che fin da bambino seguivo guardando le gare di mio padre. Gli ho detto: “Papà, questo somiglia al Karting, lì mi aiutavi con il casco, qua mi aiuti con la cuffietta, non ti sembra lo stesso?” Con un sorriso orgoglioso mi ha guardato in faccia e ha risposto: “Sei pronto a nuotare?”

Un giovedì alle 6:00 del pomeriggio ho avuto l’opportunità di provare il campo gara per sentire le condizioni della baia. Nella mia mente era esattamente uguale alle prove libere di kart, provavo la mia attrezzatura con la stessa cura e meticolosità che adottavo in pista per fare il rodaggio ad un motore nuovo. Anche se ero abituato alle mute da sub, una muta da triathlon è diversa, molto più morbida grazie ai diversi panni di neopreni che la fanno più comoda ed adatta al movimento di braccia e gambe. Già in acqua, ho aperto il collo della muta e ho fatto entrare il liquido gelido: sono pronto per la mia prima nuotata nella baia di San Francisco.

Dopo circa un chilometro e mezzo di allenamento sentivo la faccia un po’ addormentata dal freddo. Ma l’emozione di essere lì, di vedere in fondo il Golden Gate affacciarsi con la sua immensità davanti all’imbrunire, mi faceva sognare ad occhi aperti. Una nuotata del genere dopo un volo di circa 6 ore non è niente male, per quello che mi aspettava il sabato mattina.

Sabato, alle 6:40, un mattino freddo e nuvoloso mi ha dato il benvenuto al campo di gara. Mio padre era preoccupato per la temperatura dell’acqua, e ho fatto del mio meglio per fargli capire che ero sereno, preparato alla sfida. Mi godevo ogni momento con un sorriso, mesi di preparazione mi avevano portato qui, di nuovo cercavo di vivere i miei sogni senza pensare alla sclerosi multipla; per me, l’acqua è il luogo perfetto per questo.

Dopo l’inno degli Stati Uniti ci siamo avviati verso la nave che avrebbe portato tutti i nuotatori ad Alcatraz. Come cavalieri con armature di neoprene si marciava con la voglia gigante di abbracciare il nostro destino. Tra chiacchiere e risate siamo arrivati alla nave. Lì ho visto la faccia di certi nuotatori cambiare: alcuni pregavano in silenzio, altri con lo sguardo perduto, immersi nei pensieri, verso riva.

Coperta da una leggera nebbia, l’isola di Alcatraz sembrava più minacciosa da vicino. Dovevamo buttarci in mare perché la partenza avveniva direttamente in acqua. Si sono aperte le porte, è suonata la prima sirena. Il rumore correva veloce tra gli scogli, riempiendo ogni corridoio e ogni cella vuota con il suo timbro. Sono riuscito a mettermi in fila tra i primi, e ho saltato fiducioso nel gelido abbraccio dell’acqua, stringendo i denti. Mentre nuotavo verso i kayak che segnavano la linea di partenza controllavo la cuffietta, gli occhiali, la muta. Proprio come nel karting, il giro prima della partenza sei teso, pensi al telaio, ai freni, alle gomme, fai un mappa mentale di tutta la vettura, ma una volta che si alza bandiera verde, pensi solo ad essere veloce e prendere la prima curva al massimo.

Aspettando la seconda sirena, eravamo come predatori in agguato. La tipica partenza in acque libere: tutti cercavamo di andare avanti e dopo un paio di minuti eravamo già sulla giusta strada verso i punti di riferimento a terra, abbastanza grandi da vedersi così lontano. Mi sono concentrato sulla ruta che mi indicava come una freccia il bersaglio, mi sono rilassato e ho cominciato a lavorare sulla respirazione. In acque libere a volte ti senti da solo, non sai se sei primo o ultimo, nella vastità del mare è difficile vedere altri concorrenti, sopratutto in un posto con una corrente come quella di San Francisco. Questa sensazione di solitudine mi piace assai, un momento di introspezione, ti senti parte di qualcosa di più grande.

Minuti e metri passavano veloci, improvvisamente ho cominciato a sentire che la corrente mi portava verso verso ovest e ho dovuto fare delle correzioni per contrastarne la forza, controllare i punti di riferimento e andare avanti. Respiravo ogni tre bracciate, e ogni volta dal lato un Golden Gate quasi coperto dalle nuvole mi guardava dall’altra sponda della baia. Mi dicevo: “Sono cosi fortunato ad essere qui”.

Dico sempre che la sclerosi multipla non sa nuotare, ogni volta che sono immerso la sclerosi multipla resta a riva. Questo ospite malizioso del mio cervello non entra in acqua con me, dove mi sento libero dalla sua cattiva presenza. Mentre faccio quello che mi piace, la sclerosi multipla non c’entra nulla.

Dopo una trentina di minuti, riuscivo a vedere l’arrivo, alcuni avversari davanti, altri indietro. Mi sono concentrato per lo sprint degli ultimi metri. Ho visto un nuotatore avanti a me alzarsi e riuscire a camminare, e dopo poche bracciate sono riuscito anche io. I piedi che toccavano la sabbia è stato uno dei momenti più gloriosi che avessi mai sentito. Non lontano dalla meta mio padre non sapeva se farmi una foto o abbracciarmi. Ha preso la mia testa tra le mani, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha lasciato andare verso i giudici per ricevere la medaglia.

Compiere questo challenge è stato veramente un sogno. Ho avuto per tanto tempo l’idea di scappare da Alcatraz, e quando ho deciso di farlo una sensazione piacevole mi ha pervaso. Mi sentivo nuovamente me stesso. Ragazzi, la vita non finisce dopo la diagnosi. Non dovete mai smettere di sognare, anche se la sclerosi multipla vuole farsi sentire.

Giovanni Profeta


Se vuoi condividere la tua storia scrivi a blog@giovanioltrelasm.it

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3 commenti

  1. Cornelia Gasparin Reply to Cornelia

    Bravissimo, complimenti! Evidentemete la sclerosi non sa nuotare e ha molta paura dell’acqua perciò non imparerà mai. Augoroni per tutto

  2. Giovanni non conosce davvero la felicità che mi fa sapere che hai realizzato il sogno di fuggire dagli alcatras, tanto meno che tuo padre ti aspetta all’obiettivo. Condividiamo questa felicità con te, ti mando un grande abbraccio e che molti sogni possano rimanere realizzati.

  3. Veramente complimenti!
    Leggendo le tue parole e trasparsa tutta la tua gioia nell’affrontare l’ evento!
    Inoltre mi hai ricordato di non abbattersi mai! Grazie e Ancora complimenti vivissimi!
    Ariano

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