Diagnosi veloci e farmaci efficaci per la SM: l’intervista alla Presidente dello European Brain Council Mary Baker

Una delle ospiti più importanti della Leadership Conference 2012 – appuntamento cruciale dell’anno per AISM – è stata Mary Baker, presidente dell’European Brain Council, Past President EFNA, Consulente dell’Organizzazione Mondiale di Sanità e Presidente del Gruppo di lavoro sul Parkinson creato dall’Organizzazione Mondiale di Sanità nel 1997. Oltre a questo è una persona squisita, e ci ha fatto la cortesia di dedicarci un po’ di tempo per rispondere alle nostre domande.

 

Da dove ha origine il suo impegno nella lotta alle malattie neurologiche?
«Devo tornare indietro a 30 anni fa. Entrambi i miei genitori hanno avuto il morbo di Parkinson, prima mia madre e poi mio padre, il che mi ha portato a sviluppare un certo interesse per malattie neurologiche. Ho visto, in particolare mio padre, che era una persona sempre in movimento e molto attiva, perdere a poco a poco tutto questo. È stato duro. Così ho iniziato ad impegnarmi con l’associazione che si occupa di Parkinson, di cui ho incontrato la fondatrice, una donna di grande ispirazione».

 

Quali pensa siano le cose positive di questo genere di attività?
«Penso che sia una attività meravigliosa, perché si incontrano persone molto speciali. La vita oggi è difficile, abbiamo molte pressioni, scarsa comprensione e disponibilità nei confronti di persone con disabilità, e credo che se solo più persone fossero venute al fine settimana incredibile che avete organizzato (la leadership conference), avrebbero avuto maggiore comprensione della disabilità, e che avrebbero visto l’incredibile coraggio di queste persone. È una gioia essere qui».

 

Alcuni aspetti sono molto importanti per migliorare il nostro approccio nei confronti delle malattie neurologiche: la velocità nella diagnosi e i farmaci. Perché sono così importanti?
«Penso che sia molto importante non solo per i pazienti, ma anche per i sistemi sanitari, migliorare nella velocità della diagnosi e nei farmaci. Vi è una quantità enorme di sprechi nel sistema sanitario, e non possiamo più permetterlo, soprattutto ni questo momento di crisi. Cito il parkinson come esempio è perché ne so un po’ di più rispetto alla sclerosi multipla. Ci sono prove consistenti del fatto che le persone coi primi sintomi di Parkinson iniziano un viaggio molto lungo, nel corso del quale hanno a che fare con reparti di ortopedia, per il sintomo della “spalla congelata”, fanno i raggi X, fanno fisioterapia. Tutto questo è un enorme dispendio di fondi dei servizi sanitari che non ha a che fare col trattamento del Parkinson. Il tempo medio per la diagnosi di Parkinson è di tre anni e mezzo; in altre parole, ci sono tre anni e mezzo di sprechi che non possiamo permetterci. Questo non è un bene per il sistema sanitario e tantomeno per i pazienti, perché quando si è ancora senza diagnosi lo stress è enorme, ci si chiede cosa stia succedendo al proprio corpo, e sono abbastanza sicura che questa cosa sia valida anche per la sclerosi multipla, per la malattia di Huntington e per ogni altro genere di malattia neurologica. Il sistema di controllo dei farmaci in Europa ha avuto un buon sviluppo, finché non c’è stata la tragedia del Talidomide (vedi wikipedia), che ha comprensibilmente dato luogo a un’esplosione di rabbia, a seguito della quale abbiamo visto la nascita del sistema di controllo come lo conosciamo ora. È un sistema ossessionato dalla sicurezza, comprensibilmente certo, ma se sei ossessionato dalla sicurezza rischi di perdere in innovazione, perché dietro le norme c’è la paura dei contenziosi e tutto questo ci ha rallentato al punto tale che credo ci vogliano 8 anni per portare un farmaco all’attenzione del sistema di controllo: c’è lo studio preliminare, l’esclusione degli effetti collaterali, l’esclusione degli eventi avversi. Poi ci sono altri due anni di ritardo per tutte le pratiche burocratiche, e tutto questo tempo non fa altro che far salire il

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prezzo. Infine c’è l’Health Technology Assessment, che prende altri 18 mesi, trascorsi i quali la medicina raggiunge finalmente il “-ologo” ovvero l’oncologo, il reumatologo, il neurologo. I quali guardano gli studi clinici e pensano “hmmm, ci stiamo un po’ stretti, è meglio aspettare un anno”, e se si va dall’inizio alla fine di questa storia, dal laboratorio all’applicazione clinica, passano 13 anni e mezzo. Ora, gli anziani non possono aspettare così a lungo, e neanche i giovani possono. Se ho la diagnosi intorno ai vent’anni, non voglio aspettare di averne più di 30 prima di prendere la medicina giusta. Così, tutti noi dobbiamo lavorare per cercare di far sì che ci voglia un po’ di tempo in meno, e quello che stiamo cercando di fare, è di migliorare l’importanza dei risultati riportati dai pazienti, perché loro sono i clienti, non i medici. Si tratta di un grosso cambiamento, e ci vuole tempo, ma ce la possiamo fare se lavoriamo insieme».

 

Perché è importante essere impegnati nelle associazioni di pazienti?
«Penso che sia molto importante che i pazienti siano coinvolti attivamente in un’associazione, soprattutto perché fornisce un’informazione corretta. La vita è un viaggio, e diventa un viaggio molto più difficile quando si è portatore di una malattia. Come quando sono venuta qui avevo bisogno di sapere come arrivare da Heatrow a Pisa e poi un lungo viaggio per arrivare fino a questo posto, le persone hanno bisogno di informazioni, e quindi è molto importante che la gente abbia delle indicazioni su come gestirsi. L’altra grande cosa delle associazioni è che, oltre a fornire informazioni, danno la possibilità di conoscere altre persone che stanno facendo lo stesso percorso. Questo aiuta, perché ci permette di conoscere altri che sono stati in viaggio un po’ più a lungo di noi e possono darci dei suggerimenti».

 

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