I miei sogni mi hanno dato forza e fiducia

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Pubblichiamo oggi la seconda parte della storia di Cecilia (leggi la prima parte se non l’hai ancora fatto). Presto la terza ed ultima parte. Non perderla! Buona lettura

Dopo aver ricevuto la diagnosi, parlai subito con i miei compagni clown e ricevetti il sostegno dell’intera associazione. Un privilegio che mi fece sentire fortunata nell’avversità e che fece scaturire in me un’immensa gratitudine.

Quell’inverno fu tanto freddo, ma la neve ci lasciò un giorno di tregua per tornare in quel centro analisi e fare un’altra risonanza con mezzo di contrasto, con la quale andai in ospedale. Finiti i tre boli di cortisone che mi prescrissero per spegnere le infiammazioni attive, diedi un esame all’università.

La vista mi si sdoppiava ancora a tratti e non avevo certo lo spirito per mettermi sui libri. Presi 19 ma, non per vantarmi, fu in assoluto il voto più basso e più bello di tutta la mia carriera universitaria. Fu la vittoria della vita sulla vita, della mia volontà.

Il giorno del mio compleanno volai a Barcellona per vedere il Cirque du Soleil e una volta tornata iniziai a seguire le lezioni del secondo semestre nell’attesa che l’ospedale mi chiamasse per la diagnosi approfondita. Fu un’attesa lunga ed estenuante. Avevo voglia di ricoverarmi, di sapere. Mi sentivo in balia: non sapevo se avrei potuto continuare a ballare, o se sarei finita di lì a sei mesi su una sedia a rotelle. Non sapevo se sarei tornata a vedere il mondo sdoppiato. L’ospedale, però, ci rispose che al momento non c’era posto, così cambiammo struttura e, poche ore dopo, mi chiamarono per ricoverami il giorno successivo.

Tornai a casa mia, a 90 Km di distanza, perché volevo assolutamente andare ad allenarmi al laboratorio di giocoleria. Il giorno dopo, in una bellissima giornata di primavera, mi sono presentata al ricovero con le mie gambe, di mia volontà, ironizzando sul mio “costituirmi” alla sanità.

Nella mia valigia trasportavo un piccolo circo, trasportavo sogni! Si, perché erano quelli a tenermi in piedi, a farmi sentire le  gambe forti, a darmi fiducia che qualcosa di rovinoso ed irreversibile non stava per avvenire, contrariamente a quello che disegnavano le mie, ora motivate, proiezioni e paure.

Appena arrivati mio padre mi disse di mettermi il pigiama. Dovette insistere un po’ perché io lo trovavo innaturale: non volevo calarmi nel ruolo di malata, perché non mi ci sentivo e non mi ci volevo sentire. Desideravo trovarmi ancora nella cucina di casa mia, a quell’ora, a fare bisbocce con i miei coinquilini. Mi sentivo strappata alla mia vita.

Quella sera fu difficile addormentarmi. Il mattino seguente mi misi la tuta, il mascara e forse anche un po’ di phard. La squadra di camici bianchi che venne a farmi visita poche ore dopo, mi trovò sul letto con le gambe incrociate, che mi massaggiavo i piedi. Stavo bene ed era come se volessi a tutti i costi sentirmi dire da loro “lei ha tutta l’aria di essere l’eccezione alla regola, signorina”. Invece loro non dissero quasi niente, si limitarono a valutare il numero delle lesioni nel mio cervello. Ecco, il giorno seguente, dopo il prelievo del liquido cerebro spinale, mi trovarono un pochino cambiata, uno di loro esclamò : “Ce l’abbiamo fatta a stenderti!”. Il prelievo è un esame un po’ invasivo, al seguito del quale bisogna restare sdraiati per quarantotto ore, ma ne erano passate molte meno quando i clown di corsia dell’associazione di cui faccio parte vennero a trovarmi. Quando arrivarono mi trovarono che facevo dal letto bolle di sapone per tutta la stanza ed avevo già attirato l’attenzione del reparto. La domenica seguente mi diedero un permesso per uscire qualche ora. Furono ancora clown e festa e allegria, così tanta, da far si che il mal di testa feroce che stava arrivando e, che mi avrebbe accompagnata per diversi giorni, non intaccasse affatto il mio stato d’animo.

Le ultime sere in ospedale le passai in un’altra stanza, a fare palloncini, massaggi alle mani delle mie compagne di avventura, a giocare con le bolas con la flebo attaccata. Ero felice di  portare lì quella magia. Dopo altri tre boli di cortisone, sono stata dimessa . Tornai a casa con un foglio in mano e la data della prossima visita. La sera stessa, in una nuova solitudine, risuonarono nella mia mente le parole dei medici, tutte insieme. Mi arrivarono addosso con tutta la loro freddezza, come una secchiata d’acqua. Avevo voglia di piangere, eppure l’ho nascosto tante volte.

Alla mia mamma va tutta la stima per aver avuto il coraggio di farmi crollare, di aver superato quel dolore che non so immaginare e che si prova nel veder soffrire un figlio. La ringrazio per aver aperto il  suo cuore e aver liberato lo sconforto.

Mi ripresi, tornai all’università ma più di tutto tornai a coltivare le mie passioni: il corso di massaggio, la giocoleria, il tessuto aereo. Sollevarmi con la forza delle mie braccia e delle mie gambe, mi fece sentire forte. Ero forte e volevo vincere. A maggio iniziai a collaborare con un fotografo, il mio sogno! Ma non solo, iniziai la mia relazione con l’interferone, una volta a settimana.

Sorrido ricordando le notti di febbroni di quell’estate, trascorse con la mamma e il mio cane, leggendo fiabe di Calvino o guardando Heidi e facendo merenda alle quattro del mattino, aspettando che la febbre scendesse. Dopo l’estate i miei coinquilini lasciarono la casa e i nuovi che arrivarono divisero persino il sale. Mi sentivo sola e i ricordi e le paure presero il sopravvento.

Il mio ragazzo non resse il colpo, mi lasciò mentre mia mamma era in vacanza in Sardegna. Non sapendo come tirarmi su, lei comprò a distanza e in forma anonima una delle foto che avevo esposto un mese prima nell’ambito di un festival. Ma non bastò. Non fu vita, fu sopravvivenza e allora volai da lei, che mi rimise in piedi come solo una mamma sa fare.

Spinta da un mix di volontà e follia iniziai a fare mille cose per non pensare e appena potevo scappavo via, lontano. Non trovavo pace e mi stressai troppo. La primavera successiva ebbi una ricaduta a livello della cervicale che mi provocò irrigidimento e parestesia: al girare il collo era come se le sciarpe mi graffiassero e l’acqua, nella parte sinistra, fosse più fredda.

Sul momento non crollai psicologicamente perché questa volta conoscevo la causa dei miei malesseri. Cinque boli di cortisone e un cambio di terapia per me. Il verdetto fu interferone tre volte a settimana.

Faticai nell’accettare quella nuova vita, una vita ancor più impegnativa. Non permisi però alla terapia di fermarmi. Mi somministravo l’interferone in compagnia dei miei amici, facendo magie che funzionavano!

Mi convinsi talmente tanto che ero più forte io, che in effetti, lo diventai. E poi, incontrai Giorgio. Ragazzo diversamente abile e diversamente fantastico col quale feci amicizia e che iniziai ad affiancare all’università. Fu la mia motivazione per alzarmi dal letto al mattino. Iniziò che io gli leggevo i libri e li commentavamo insieme e finì che veniva lui a casa mia a darmi ripetizioni, di vita. In quel periodo mi allontanai quasi totalmente dal mondo dei clown di corsia e dal mio naso rosso. Fu tutto per lui.

Uno dopo l’altro preparammo quasi tutti gli esami insieme e nel frattempo una nuova generazione di coinquilini veniva ad abitare a casa mia: tre angeli. Per la prima volta ebbi la prova che le mie preghiere erano state accolte e il beneficio sperato, si manifestò moltiplicato al quadrato, superando l’immaginazione.

Cecilia

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6 commenti

  1. Ciao Cecilia. Io amo essere una voce fuori dal coro. Quindi non ti faccio i complimenti (meritatissimi) per la tua forza, ma ti chiedo una cosa: e se non fossi tornata fisicamente come prima? E se il tuo corpo ti avesse impedito di fare ciò che ami? Io mi sono ritrovato proprio così: il teatro? No! Sto a malapena in piedi! La lettura? No! Gli occhi si stancano subito!
    Io ho trovato le soluzioni … o forse sono loro che hanno trovato me! 🙂

    • Cecilia Campaniello Reply to Cecilia

      Ciao Paolo, perdona il ritardo della mia risposta, non so cosa avrei fatto se i sintomi non fossero regrediti, mi spiace tantissimo che a te sia andata così..certamente la mia storia non sarebbe questa, al pensiero di non poter più fare ciò che amo muoio dentro e sono felice che tu abbia trovato delle nuove soluzioni!

  2. Che bella storia! Sembra una favola. Una favola reale non ovattata… L’insegnamento da trarre per tutti noi, come voler vivere e godere della vita, ostinatamente, fino in fondo. Brava!

  3. È proprio un libro scritto la nostra vita segnata dalla SM?
    Anche io sono stata lasciata poco dopo aver scoperto la malattia……sai che ti dico? Peggio per loro.
    Un bacio

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