Un pensiero di fine anno

Con piacere pubblichiamo un post di fine anno della “nostra” antropologa Conny Russo che molti hanno conosciuto, al convegno giovani di dicembre, nel laboratorio “Narrazione come cura del sè”

Concetta Russo è antropologa,dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano “Bicocca”. Ha svolto numerose ricerche nel campo dell’antropologia medica, occupandosi del rapporto fra narrazione della malattia e identità fra i migranti italiani in Australia e di politiche della salute mentale a Cuba. Negli ultimi anni ha lavorato con adolescenti non vedenti e con disabili relazionali, e tenuto numerosi corsi di formazione sui temi della comunicazione, della relazione medico-paziente, e della salute mentale.

Finisce dicembre, e quasi senza volerlo ci si ritrova a ripensare, se non proprio a fare un bilancio, a quello che siamo, a quanto abbiamo realizzato, creduto e sognato in quest’anno che sta per terminare. Spesso pensiamo al nostro tempo come allo spazio che abbiamo a disposizione per realizzare i nostri obiettivi, ci valutiamo per capire quanto siamo stati bravi: “questo mi è riuscito”, “quest’altro no”. Chi sono dipende da dove sono arrivato, da cosa ho portato a termine, dallo scarto fra cosa volevo e cosa sono riuscito a ottenere.  Tutto il resto ci appare accessorio, chi ho incontrato, le cose che mi sono capitate senza che le cercassi, i momenti di gioia fugace che non andavano in nessuna direzione.

Poi prendiamo in mano la penna. O ci affidiamo alla tastiera, entriamo nel regno della pagina bianca. Il tempo non è più lo spazio lineare dove misuro me stesso, ma uno scrigno, che custodisce momenti che, impegnato com’ero a valutarmi, avevo messo da parte. Scrivo di un bacio inaspettato, alla fermata del tram, mentre tutta la città correva veloce e io, improvvisamente, non avevo più nessuna fretta. Scrivo di quella volta che, mentre fuori pioveva, ci siamo messi in cucina a cantare e a ridere, e anche se ci mancava tutto non avevamo bisogno di nulla. Scrivo del mio migliore amico che piangeva al telefono mentre io non avevo più parole per confortarlo, ma potevo solo essere lì. Scrivo del giorno in cui è morto mio nonno, e anche se me l’aspettavo mi sono accorta che non me l’aspettavo affatto, perché la morte ci coglie sempre, irrimediabilmente, impreparati.  Scrivo e so che io sono tutti questi momenti, e non solo la somma degli obiettivi che ho raggiunto, che vivo ben oltre lo scarto delle mie aspettative. Che vivo, gioisco e soffro al dettaglio, perché non c’è altro modo di guardare se stessi che mettendo a fuoco lo sfondo.

Rileggo gli scritti del workshop di Roma, e vedo tutto questo. E allora vi ringrazio ragazzi per avermi donato un po’ di questi attimi e avermi fatto vivere un fugace e inaspettato momento di gioia.

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