Ritardi in aeroporto (e qualche riflessione sulle giornate no)

Nella foto: un’immagine del reportage Under Pressure – Living with MS in Europe ©2011, Fernando Moleres

È il 21 settembre, mi trovo all’aeroporto di Bari. È passata la mezzanotte, ma io e la mia collega Federica, dopo una lunga giornata di lavoro e impegno, stiamo ancora aspettando di imbarcarci su un volo che avrebbe dovuto partire alle 23.20.

E passata la mezzanotte e siamo in coda da quasi due ore. In attesa. Siamo mortalmente stanche, lo siamo tutti. Non ci stanno imbarcando, e nel terminal nessun controllo è più attivo. Tutto è illuminato a giorno, e l’aeroporto si sta svuotando poco a poco. Nessuno parla e spiega. Semmai, intorno a te, soprattutto tra il personale aeroportuale, noti persone disattente, con lo sguardo fisso alle lancette del proprio orologio.

Le tre hostess presenti al terminal, in particolare, nonostante il ritardo del volo sia ormai palese e significativo, nonostante le informazioni non arrivino, nonostante siamo tutti quanti diligentemente in attesa al gate, con il naso contro la vetrata, sperando di veder apparire l’areo che ci porterà a casa, decidono di poter ignorare la nostra difficoltà. Ignorano persino le richieste di chi tra noi, parte di quel gruppo che avrebbe dovuto imbarcarsi per Roma alle 22.45 e che dopo due ore è ancora in piedi e in coda, dice che avrebbe bisogno di una sedia.

Tra noi c’era anche un signore seduto sulla carrozzina (il suo disagio era ben evidente a tutti), c’era una bimba piccola, alcuni anziani e persone la cui disabilità non era evidente ma che avrebbero avuto bisogno di appoggiarsi un attimo, per avere quel po’ di tregua che ti serve per non lasciarti andare. Tra queste c’era anche una donna con sclerosi multipla.

Lo so perché sono io quella donna. Benché cammini, lavori, pensi e parli con tutta la dignità di cui sono capace, benché non abbia pretese nei confronti di nessuno, ogni tanto chiedo anche di essere ascoltata.

E dico che su quella mia (e nostra) lunga attesa, per nessuno di noi ha pesato il ritardo in sé. Ha pesato l’indolenza del personale, la loro indisponibilità a risponderti guardatoti in faccia. Ha pesato la decisione di voler chiudere una porta anziché tenerla aperta, senza darti la possibilità di attendere al gate ma in un corridoio chiuso, privo di sedie. Ha pesato la cultura dell’intolleranza che non ha compreso che l’altro è un altro te stesso. Sia che abbia i capelli bianchi o stringa forte il ciuccio tra le mani.

Questa storia parla soprattutto di gentilezza e buon senso, che  ciascuno dovrebbe poter trovare nell’altro, che non ha nulla a che vedere con orari, voli ritardatari, hostess impettite che ripetono che non è nella politica della linea aerea comunicare per un disagio all’utenza non così significativo, né con la SM e altre cose così…

Le buone giornate e la loro lunga conclusione hanno semmai a che fare con una capacità di ascolto che spesso non ha neppure bisogno di parole (e secondo me neanche con la politica aziendale).

Mi chiedo anche se la gentilezza e la capacità di ascolto non siano requisiti fondamentali e indispensabili in una professione che ha a che fare con gli altri e che nessuno ci costringe a scegliere. Che sono un patrimonio a cui si può rinunciare, ma piuttosto cui si deve attingere quando siamo stanchi e abbiamo voglia di correre a casa.  Io, io persona con sclerosi multipla, vi regalo questa verità: non pensare solo a noi stessi fa bene.

Enrica

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1 commento

  1. Spesso l’individualismo e l’indifferenza creano barriere che diventano muri altissimi !

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